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E se gli Stati Uniti andassero in default?

George Brown, Economist, Schroders
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A cura di George Brown, Economist, Schroders

Il 19 gennaio 2023 gli Stati Uniti hanno raggiunto il limite autorizzato del debito pubblico, pari a 31.400 miliardi di dollari. In risposta, il Tesoro ha fatto ricorso a espedienti contabili per garantire il rispetto dei suoi obblighi. Ma se il tetto del debito non verrà né innalzato né sospeso entro una “data x”, ancora sconosciuta nel corso dell’anno, tali espedienti non potranno più essere utilizzati e gli Stati Uniti andranno tecnicamente in default sul proprio debito.

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Il tetto del debito è stato modificato più di cento volte dalla Seconda guerra mondiale, quindi, perché questa volta dovrebbe essere diverso? Sia i Democratici che i Repubblicani si atterranno senza dubbio al ben collaudato schema di gioco di far scorrere il tempo fino alla data x, nel tentativo di costringere l’altra parte a cedere per prima. I Repubblicani cercano di ottenere profondi tagli alla spesa, mentre il Presidente Biden vuole aumentare le tasse sulle società e sui redditi alti.

I due schieramenti saranno impegnati in una guerra di parte, finché non troveranno un compromesso dell’ultimo minuto. Queste tattiche, tuttavia, rischiano di ritorcersi contro chi le ha messe in atto, in quanto potrebbero portare a un default involontario. La probabilità di un tale esito è più elevata rispetto agli anni precedenti. Le concessioni fatte dal Presidente della Camera limitano il numero di soluzioni legislative, mentre la crescente polarizzazione politica complica il compito di creare consenso.

Perché non si può escludere un default

Dopo le elezioni di midterm, i Repubblicani hanno ottenuto solo una risicata maggioranza di cinque seggi alla Camera dei Rappresentanti. Lo Speaker della Camera ha dovuto fare delle concessioni per essere nominato, tra queste, il ripristino della precedente procedura di “mozione di revoca”. Ora un singolo membro può forzare il voto per la destituzione dello Speaker della Camera, invertendo le modifiche del 2019 che richiedevano la maggioranza di uno dei due partiti. In questo modo, una minoranza di falchi fiscali potrà mettere alle strette lo Speaker nei negoziati sul tetto del debito.

Le possibilità di soluzione sono limitate

Se si profilasse un default degli Stati Uniti, un piccolo numero di Repubblicani moderati potrebbe essere motivato a schierarsi con i Democratici per votare un aumento “pulito” del tetto del debito. Oltre al fatto che questo non farebbe altro che prendere tempo, si scontrerebbe anche con una serie di ostacoli legislativi. Se ogni tentativo legislativo dovesse fallire, si potrebbero prendere in considerazione opzioni non ortodosse: il Tesoro potrebbe coniare una moneta di platino da 1.000 miliardi di dollari e depositarla presso la Fed in cambio di liquidità; oppure il Presidente potrebbe invocare il 14° Emendamento per aumentare unilateralmente il tetto del debito. Si tratta di una prospettiva remota, poiché minare il ramo legislativo in questo modo probabilmente non farebbe piacere agli investitori.

Un default degli Stati Uniti avrebbe conseguenze in tutto il mondo

Se la data x passasse senza che il tetto del debito venga innalzato, i pagamenti delle cedole e i rimborsi dei titoli del Tesoro si fermerebbero. L’America entrerebbe in default, un evento senza precedenti con ramificazioni di vasta portata.

Abbiamo delineato uno scenario di rischio, che vede i politici statunitensi iniziare a parlare apertamente di un default dopo una rottura delle trattative. Ciò provocherebbe un sell-off dei Treasury che si diffonderebbe ai mercati del debito più vulnerabili, costringendo i governi di tutto il mondo a ridurre le proprie attività. Il brusco inasprimento delle condizioni finanziarie sarebbe particolarmente negativo per i mercati emergenti che dipendono dai flussi di capitale. L’attività economica verrebbe ulteriormente frenata da altri canali. Oltre all’aumento del costo del finanziamento del debito, la volatilità dei mercati intaccherebbe la fiducia dei consumatori e delle imprese, causando un ridimensionamento delle intenzioni di investimento e l’accumulo di risparmi precauzionali da parte delle famiglie. Negli Stati Uniti, in particolare, lo shutdown del governo colpirebbe anche la spesa e l’attività federale. Le banche centrali verrebbero spinte all’azione. La Fed interromperebbe l’inasprimento quantitativo e taglierebbe i tassi, e i suoi omologhi delle economie avanzate ne seguirebbero l’esempio. Tuttavia, i policymaker dei mercati emergenti sarebbero costretti a mantenere alti i tassi di interesse per difendere le loro valute, e alcuni di loro sarebbero addirittura costretti a adottare rialzi aggressivi per arginare i deflussi di capitale. Alla fine, il Congresso raggiungerebbe un accordo per aumentare il tetto del debito. Ma il danno sarebbe già stato fatto. La crescita globale subirebbe un netto rallentamento: in questo scenario, sarebbe inferiore dello 0,7% rispetto alle nostre proiezioni di base per il 2023 e il 2024. Se c’è un aspetto positivo, si ipotizza che l’indebolimento della domanda farebbe scendere l’inflazione di circa lo 0,5% rispetto alle nostre previsioni di base nello stesso periodo.

Conclusioni: sperare nel successo, ma essere pronti in caso di fallimento

Anche se le minacce di default saranno usate come leva nei negoziati sul tetto del debito, è improbabile che anche i Repubblicani più conservatori dal punto di vista fiscale permettano deliberatamente il default degli Stati Uniti. Tuttavia, un default “accidentale” potrebbe verificarsi se ci fosse un errore di calcolo. Questa possibilità è accresciuta dall’incertezza sulla data limite. Il Congressional Budget Office stima che sarà tra luglio e settembre, ma potrebbe essere prima se le dichiarazioni dei redditi annuali presentate ad aprile deluderanno le aspettative.

Anche se si evitasse un default, i mercati potrebbero affrontare delle difficoltà. Nel 2011, gli investitori erano in fibrillazione perché il Congresso aveva passato mesi a litigare sul tetto del debito prima di alzarlo con soli due giorni di anticipo rispetto alla scadenza. Non molto tempo dopo, agli Stati Uniti è stato tolto per la prima volta il rating AAA. Il conseguente risk-off ha visto il dollaro deprezzarsi, l’S&P 500 affondare e gli spread allargarsi. Dato il rischio di una nuova crisi, gli investitori dovrebbero riflettere sul posizionamento del loro portafoglio. Parcheggiare il capitale in T-Bill potrebbe essere allettante visti gli attuali rendimenti, ma questi sono storicamente sotto pressione quando ci si avvicina alle scadenze del tetto del debito. Gli investitori dovrebbero invece considerare un’allocazione sovrappesata ai metalli preziosi, alle valute e alle obbligazioni rifugio non statunitensi. Queste ultime dovrebbero registrare un rialzo quando i timori di un possibile default degli Stati Uniti si dissolveranno, e a quel punto alcuni investitori potrebbero trarne vantaggio.  Ad esempio, i T-Bill con scadenza non lontana dalla data x saranno probabilmente poco apprezzati, come è accaduto nel 2011 e nel 2013, presentando una prospettiva interessante per chi è disposto a scommettere che il Congresso riuscirà ad aumentare il tetto del debito in tempo.

Tuttavia, qualsiasi compromesso raggiunto tra Repubblicani e Democratici probabilmente includerà tagli alla spesa e forse anche aumenti delle tasse. Entrambe le cose aggraverebbero la recessione che ci aspettiamo si materializzi nel corso dell’anno. Tuttavia, sarebbe un piccolo prezzo da pagare se ciò significasse evitare i danni diffusi e duraturi che un vero e proprio default degli Stati Uniti comporterebbe.

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