A cura di Andrea Delitala, Head of Investment Advisory di Pictet Asset Management
20.11.2023
I dati americani sono forti per quel che riguarda il terzo trimestre, il che induce a rivedere al rialzo le previsioni per il 2024, nel nostro caso dallo 0,5 a circa 1%, ma un po’ meno per il mercato del lavoro, dove la disoccupazione, invece, è risalita al 3,9%. Sono in flessione, invece, i sondaggi, il PMI e l’ISM, soprattutto dei servizi. In particolare, i ritmi di crescita americani, alimentati dai risparmi in eccesso, che a loro volta hanno sostenuto i consumi, sono destinati a diminuire a causa, appunto, dell’esaurirsi di questo cuscinetto nel prossimo trimestre o due.
L’inflazione rientra, invece, nonostante una crescita superiore al previsto nei primi trimestri dell’anno, a riprova del ruolo rivestito dalla normalizzazione dell’offerta. Insomma, non si parla più di interruzione della catena di produzione e distribuzione.
Per quel che riguarda l’Europa, invece, i dati delle attività economiche restano depressi, mentre l’inflazione rientra più velocemente del previsto. Sebbene lo scenario di base sia, anche per l’Europa, di soft landing, come ha ribadito il Fondo Monetario Internazionale, per l’Eurozona il rischio di recessione – non solo tecnica – è più evidente che non in America.
Per i mercati, comunque, la cosa più importante in queste ultime settimane è stato il regalo americano di Halloween: emissioni del Tesoro più leggere sul lungo termine e Federal Reserve meno hawkish. Occasione in cui Powell ha sottolineato un paio di aspetti molto importanti. Per prima cosa ha preso atto della restrizione finanziaria dovuta ai rialzi dei tassi di interesse a lunga, precisando tuttavia che la Fed reagirà a questo fenomeno solo qualora diventi persistente. In secondo luogo, dopo oltre il 5% di rialzi in un anno e mezzo, e tenendo conto del fatto che vi sono dei ritardi negli effetti macroeconomici di tali rialzi, la Fed ritiene al momento che il rischio di errore per eccesso di zelo sia simmetrico a quello di sbagliare per difetto.
Pertanto, riteniamo che per vedere un taglio da parte delle banche centrali dovremmo registrare ulteriori progressi sul fronte del rientro dell’inflazione, o avere maggiori evidenze di un più marcato deterioramento dell’attività economica. Personalmente, credo che siamo sulla buona strada per vedere progressi sul fronte del rientro dell’inflazione verso il 2% in America, mentre in Europa appare più probabile il rischio di un peggioramento del quadro di crescita economica.
Nel nostro scenario di base i primi tagli arriveranno entro l’estate 2024, leggermente in ritardo rispetto a quanto previsto dal mercato. Tagli che, però, potrebbero anche proseguire più speditamente rispetto ai tre tagli impliciti nei tassi a termine, cioè i forward, entro la fine dell’anno prossimo. La normalizzazione piena verso i livelli di lungo periodo, quelli che chiamiamo tassi neutrali (che in termini nominali sono tra il 2,5 e il 3 per l’America e tra il 2 e il 2,5 per l’Europa) richiederà comunque almeno un altro anno.
Guardando ai mercati finanziari e al loro recente andamento, il sostanzioso rally di inizio novembre rappresenta per noi più una correzione di una fase ossessiva sui tassi di interesse, rispetto a un’euforia. Riteniamo, infatti, che il rialzo dei tassi di interesse americani degli ultimi quattro mesi sia il frutto di preoccupazioni lecite (sebbene eccessive), che vanno dallo stato della finanza pubblica americana, al livello di equilibrio dei tassi nel lungo termine e ad altri fattori tecnici un po’ autoreferenziali (quali il term premium) e, quindi, il rialzo del decennale in quattro mesi dal 4 al 5% (quasi 1% anche in termini reali) non crediamo sia giustificato dal punto di vista fondamentale.
Come dicevamo prima, la crescita ad oggi è forte ma non sostenibile a questi ritmi, mentre l’inflazione è in discesa con aspettative ancorate. La forte reazione, quindi, delle ultime sedute da parte dei bond americani, e non solo, sono sì causa di una Fed meno hawkish ma si devono anche all’annuncio di emissioni governative meno gravose da parte del Tesoro americano.
La combinazione di questi elementi è un fattore di supporto per i bond, e lo sarà nei prossimi mesi, così come le borse beneficeranno di riflesso della distensione sui tassi.
Attualmente il mercato resta sgradevolmente volatile, sebbene le valutazioni di oggi, soprattutto quelle obbligazionarie, sono più giustificate di quelle di fine ottobre. Nel complesso, riteniamo che il peggio sia ormai alle spalle, anche perché le autorità americane hanno in qualche modo preso atto di questo eccesso di volatilità e hanno mostrato una maggiore attenzione a questa erraticità, se non anche alla divergenza dai fondamentali dei titoli di Stato americani.
Pure in un contesto, quindi, di volatilità e incertezza persistente ci aspettiamo un calo ulteriore di circa mezzo punto, quindi a ridosso del 4%, per il decennale americano nell’arco dei prossimi tre o quattro trimestri. Questo avrà a sua volta effetti di trascinamento sui rendimenti obbligazionari del resto del mondo, anche se su scala ridotta per l’Europa e amplificata per i mercati emergenti. Unici in controtendenza i giapponesi, che stanno abbandonando la politica di controllo della curva dei rendimenti, e vedranno quindi rendimenti del JGB in salita.
Per le azioni prevediamo margini di recupero una volta che vedremo la stabilizzazione o, meglio, l’assestamento dei rendimenti obbligazionari, soprattutto americani. Più che da sorprese sugli utili, quindi, ci aspettiamo che la spinta azionaria si esprima in termini valutativi, con un’espansione dei multipli, cioè del rapporto prezzo/utili da qua a fine anno.
I titoli tecnologici, growth e, in generale, quelli più penalizzati dal rialzo dei tassi di interesse, saranno pertanto anche quelli che ne dovrebbero beneficiare di più.
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