A cura di Elma de Kuiper, Portfolio Manager, European Equity, e Freddie Fuller, RBC European Equity Product Specialist, RBC BlueBay Asset Management
I recenti eventi geopolitici hanno catalizzato l’attenzione globale su una maggiore regionalizzazione e sull’approvvigionamento energetico. È probabile che ciò abbia un impatto più ampio sulla strada verso la sostenibilità e sui trend di decarbonizzazione in Europa. Tuttavia, i cambiamenti regionali hanno ancora implicazioni globali e dobbiamo considerare sia le politiche esistenti sia quelle potenziali se vogliamo non solo rispettare gli impegni attuali in materia di sostenibilità, ma anche avere un futuro sostenibile.
La guerra in Ucraina è servita a sollevare il sipario su molte delle contraddizioni intrinseche della politica energetica occidentale e su come queste si ripercuotano sui trend della sostenibilità e della decarbonizzazione. Osservando più da vicino la Germania, ad esempio, appare evidente quanto una parte dell’Europa sia ancora dipendente dai combustibili fossili.
Fino al 2011 la Germania otteneva un quarto dell’energia elettrica dal nucleare e disponeva di 17 reattori. Ma poi è avvenuto il disastro di Fukushima, che ha spinto Berlino a decidere di abbandonare completamente l’energia nucleare nel 2022. Questa transizione è stata così rapida da obbligare la Germania a essere più dipendente dal carbone e dal gas per soddisfare il proprio fabbisogno energetico, con statistiche preoccupanti. Il National Bureau of Economics ha rilevato che la decisione della Germania di spegnere i reattori nucleari provoca 1100 morti in più all’anno a causa dell’inquinamento atmosferico, perché le emissioni di anidride carbonica sono aumentate di circa 36 milioni di tonnellate.
Attualmente, metà dell’energia elettrica tedesca proviene da fonti non rinnovabili, tra cui il 35% da carbone e lignite. La Germania sta sicuramente dando priorità alla decarbonizzazione della propria economia, ma resta il fatto che importa ancora grandi quantità di carbone e gas per utilizzo interno. Il 40% del gas naturale della Germania oggi viene importato dalla Russia e questo la mette in una situazione difficile.
Nelle nazioni sviluppate che promettono di raggiungere grandi obiettivi sembra vada tutto bene, peccato che poi alcune procedano all’offshore delle loro attività più inquinanti. D’altra parte, l’Islanda produce circa 55 kilowattora per persona, ossia quattro volte di più degli Stati Uniti e ben oltre il doppio della Norvegia, che si trova al secondo posto. Visto il fatto che produce una serie di importanti metalli per l’industria, con il 100% di elettricità rinnovabile, in Islanda le emissioni di CO2 sono 10 volte inferiori a quelle che si avrebbero se queste attività fossero trasferite in Cina, Paese ad alta intensità energetica.
Sia il governo islandese sia l’UE hanno come obiettivo la riduzione delle emissioni di CO2, ma questo avviene a livello locale piuttosto che guardando al quadro più ampio su scala globale. In realtà è affascinante il fatto che se la prossima fonderia di alluminio venisse costruita in Islanda anziché in Cina, a livello globale sarebbe più che sufficiente a compensare tutte le attuali emissioni di CO2 dell’Islanda, il che rappresenta un enorme vantaggio. Naturalmente, la stessa logica si può applicare a qualsiasi industria ad alta intensità energetica che potrebbe utilizzare le energie rinnovabili in Occidente piuttosto che, ad esempio, il carbone in un Paese lontano.
Ma proprio per questo è necessaria un’enorme quantità di cemento e acciaio. Questo suggerisce che il sostegno all’industria del petrolio e del gas dal punto di vista degli investimenti ESG, è in realtà una necessità, in quanto facilita la costruzione delle energie rinnovabili.
Tuttavia, piuttosto che considerare il quadro globale, ad oggi molte politiche incoraggiano le aziende o i Paesi a ridurre le proprie emissioni. Ciò solleva la questione se non si debba invece incentivare la decarbonizzazione delle nostre attività collettive a livello globale, piuttosto che puntare semplicemente a soddisfare gli obiettivi e le normative locali senza alcun beneficio netto.
In realtà, la questione non si limita solo agli stati. In qualità di investitori, è diventato sempre più importante fare engagement con le aziende ben oltre i loro obiettivi di riduzione delle emissioni. Le aziende che appaiono migliori da un punto di vista ESG sono spesso quelle che esternalizzano completamente la produzione, perché in questo modo la loro impronta di carbonio appare gradevolmente bassa e il loro core business può essere considerato pulito.
Si possono fare molti esempi diversi, ma solo per citarne alcuni: i veicoli elettrici che utilizzano batterie agli ioni di litio prodotte da fabbriche ad alta intensità di carbonio in Cina, per non parlare delle materie prime e del luogo in cui vengono estratte; i pannelli solari in cui le materie prime provengono da miniere che utilizzano manodopera schiavizzata nello Xinjiang. E queste aziende vengono effettivamente premiate per la loro capacità di rendicontazione su queste parti più nebulose della loro catena di approvvigionamento. Forse perché, essendo percepite dagli investitori come green, hanno una valutazione molto più alta.
Prendiamo ad esempio Maersk, una delle più grandi compagnie di navigazione del mondo, con sede in Danimarca, e il modo in cui gestisce lo smaltimento delle proprie navi una volta che hanno raggiunto la fine del loro ciclo di vita. Hanno diversi standard per lo smaltimento delle navi che, di conseguenza, si applicano a seconda dei casi. Esiste una legge dell’UE entrata in vigore nel 2018, chiamata “Regolamento sul riciclo delle navi”, che impone alle aziende di rottamare le navi registrate nell’UE in impianti approvati dall’Unione stessa, che adottano operazioni rispettose dell’ambiente e garantiscono la sicurezza dei lavoratori.
Purtroppo, aggirare queste regole è molto facile. Molte compagnie marittime fanno arrivare le navi in porti insoliti e le vendono o cambiano bandiera, il che consente loro di utilizzare cantieri navali per lo smaltimento che non sono soggetti alle regole dell’UE. Questo non fa che ribadire la nostra convinzione della necessità di coalizioni ampie e globali, piuttosto che di politiche e regolamenti locali, nell’affrontare i problemi della sostenibilità. Ciò sarebbe necessario sia a livello aziendale sia a livello nazionale, per garantire che venga impostata la giusta rotta verso un futuro sostenibile.
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